sabato, settembre 27, 2025

LE STRAORDINARIE CAPACITÀ DELLA NOSTRA MEMORIA. PUÒ ARRIVARE A SCORDARE IL NOME DI UNA PERSONA APPENA CONOSCIUTA, PERCHÉ CONCENTRATA A MEMORIZZARE IL SUO VOLTO!


Oristano 27 settembre 2025

Cari amici,

Che il nostro cervello sia una macchina straordinaria, un super computer ben diverso anche da quelli di ultima generazione, erroneamente accreditati come il nostro prossimo futuro, è una realtà incontestabile! Anche i computer più avanzati, quelli straordinariamente veloci, dotati della così detta “intelligenza artificiale”, non sono paragonabili al cervello umano, in quanto funzionanti su paradigmi fondamentalmente diversi. L'intelligenza artificiale elabora le informazioni basandosi su correlazioni statistiche e potenza computazionale, mentre il cervello umano opera su un’elaborazione complessa e integrata, fatta di biologia, emozioni e coscienza.

Ho fatto questa premessa, amici, per parlare oggi con Voi di una curiosa particolarità inerente proprio il nostro cervello: la memorizzazione di una nuova conoscenza. Credo che capiti a tutti di ritrovarsi tra amici e incontrare persone “nuove”, prima non conosciute. Alla presentazione ed allo scambio del relativi nomi, seguiti dalla classica frase “piacere di conoscerti”, si inizia a conversare. Ebbene, dove sta la particolarità? Il nostro cervello elabora la nuova conoscenza in due maniere. Da un lato cerca di metterete a fuoco e memorizzare il viso e le fattezze di questa persona, dall’altra, invece, cerca di memorizzare il nome. Con quale risultato? Dipende dalle persone e dal loro cervello, considerato che ogni persona ne ha uno "unico e mai uguale ad un altro"!

Per cercare di comprendere come il nostro cervello archivia i fatti nuovi e le nuove conoscenze, alcuni ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di York, guidati dal dottor Rob Jenkins, hanno sottoposto a un “giocoso” test dei volontari. pubblicandolo poi sul Quarterly Journal of Experimental Psychology. Questo il risultato finale: il 64 per cento dei volontari aveva ben memorizzato il viso della nuova persona, mentre l’83 per cento aveva memorizzato il nome. «Questo risultato sconcerterà molti, perché è diffusa, direi intuitiva, l’idea di essere più bravi con i volti – ha commentato Jenkins – Può darsi che una persona si senta negata per tirar fuori il nome giusto al momento giusto, ma allora sarà anche peggio nel riconoscere i lineamenti».

Amici, secondo i più aggiornati test di psicologia, le persone che dimenticano facilmente il nome delle persone poco dopo averle conosciute, hanno queste 5 (cinque) particolari caratteristiche. 1. Sono persone più concentrate sulla conversazione. Secondo gli psicologi, dimenticare i nomi può essere dovuto al fatto che le persone sono più concentrate sulla conversazione o sulla presenza dell’altra persona. Sebbene questo possa rappresentare uno svantaggio in alcune situazioni, la realtà è che è indice di una buona capacità di conversazione. 2. Persone con Buona memoria visiva. Gli individui che dimenticano i nomi tendono ad avere, come controparte, una buona memoria per ricordare i volti. Infatti, i ricercatori avvertono che si tratta di un retaggio evolutivo, poiché per la sopravvivenza era più importante ricordare il volto che il nome di qualcuno.

3. Persone empatiche e con intelligenza emotiva. Sebbene dimenticare il nome di qualcuno che hai appena conosciuto possa far pensare che non ti importa, la realtà è esattamente l’opposto. Probabilmente si è stati molto più attento ad altri dettagli, come la sua storia, le sue esperienze, etc. In definitiva, il soggetto ha un alto livello di empatia e intelligenza emotiva, poiché è in grado di mettersi nei panni degli altri. 4. Soggetti che non seguono sempre le regole sociali. Se si hanno difficoltà a ricordare il nome di qualcuno e questo non è qualcosa che preoccupa più di tanto, probabilmente significa che il soggetto non segue le regole e le aspettative sociali. Sebbene per molti questo possa essere considerato un segno di maleducazione, la realtà è che potrebbe essere dovuto al fatto che si è più concentrati su altre questioni altrettanto importanti quando si conosce qualcuno.

Infine  la 5^ caratteristica: Persone molto intuitive. In queste situazioni, è possibile che la persona sia stata più attenta ai segnali non verbali, all’energia e alle emozioni dell’altra persona, piuttosto che a dettagli specifici come i nomi. Questo permette una maggiore capacità di “leggere tra le righe” e di imparare oltre ciò che viene detto.

Cari amici, credo di non avere molto altro da aggiungere, se non che il nostro cervello non è e non sarà mai sostituito da nessuna macchina, perché all’interno del cervello dell’uomo c’è qualcosa di non imitabile e replicabile: LA COSCIENZA!

A domani.

Mario

 

venerdì, settembre 26, 2025

IL SERIO PROBLEMA DELLA CARENZA DI SACERDOTI NELLA CHIESA CATTOLICA. QUALI LE POSSIBILI SOLUZIONI PER IL FUTURO?


Oristano 26 settembre 2025

Cari amici,

La Chiesa cattolica da tempo si trova ad affrontare un problema alquanto gravoso: la crescente diminuzione delle vocazioni sacerdotali, con i Seminari sempre più vuoti e tante parrocchie senza un proprio sacerdote che segue la Comunità. Cercando di fare di necessità virtù, la Chiesa Cattolica sta adottando diverse strategie, tra cui la ridistribuzione delle risorse disponibili, con sacerdoti che si debbono occupare di 2/3 o più parrocchie. In questo modo si cerca di coprire le esigenze più importanti, cercando il coinvolgimento dei fedeli laici, chiamati in aiuto al servizio pastorale. Rimedi tampone, ma che certamente dovranno sfociare in soluzioni più efficaci.

La triste realtà è che, in questo millennio iper-tecnologico, la vocazione al sacerdozio dei giovani appare alquanto scarso, e tra le possibili soluzioni sul tappeto, una delle ipotesi ventilate, nei vertici della Chiesa Cattolica, c'è quella di prendere in considerazione anche la possibilità di superare il "celibato sacerdotale", facendo accedere al sacerdozio gli uomini sposati. Chi ipotizza una soluzione di questo tipo, ribadisce che per secoli ai sacerdoti non veniva imposta l’astinenza coniugale, e tanti furono i preti sposati, che esercitarono la loro missione sacerdotale pur avendo moglie e figli. Ripercorriamo, dunque, il percorso della Chiesa Cattolica e le motivazioni che hanno portato all’introduzione del celibato.

L’excursus storico evidenzia che nei primi secoli del cristianesimo non esisteva l’obbligo del celibato per i sacerdoti. In passato diversi sacerdoti, ma anche vescovi e persino alcuni papi erano sposati. Ciò che veniva loro richiesto era la fedeltà e la moderazione: la castità, seppure fosse considerata una virtù, non era  comunque un obbligo, e il ministero religioso non era ritenuto incompatibile con la vita coniugale. Tuttavia, fin dal IV secolo, iniziò ad ipotizzarsi, in alcuni Concili, di "aggiungere la castità" a chi voleva dedicare la sua vita al servizio religioso, iniziando così a parlare di introduzione del celibato.

Fu, però, solo a partire dal Medioevo che la Chiesa latina impose in modo definitivo il divieto di matrimonio a coloro che prendevano i voti. IL CELIBATO OBBLIGATORIO fu una decisione assunta nei concili del XII secolo, e la sua introduzione rispose sia a motivi spirituali, sia a interessi materiali e politici. Amici, nel Medioevo la vita gravitava attorno alla religione, e il celibato era interpretato come segno di maggiore santità e totale dedizione a Dio. Il clero celibe poteva dedicarsi completamente alla preghiera e al servizio, senza le «distrazioni» della vita domestica e coniugale. Non tutte le Chiese cristiane, però, introdussero il Celibato obbligatorio. Nelle Chiese orientali — sia ortodosse sia cattoliche orientali in comunione con Roma — continuò ad essere consentito ai sacerdoti di sposarsi prima dell’ordinazione, ma non dopo. Successivamente, Chiese riformate come quelle luterana e anglicana abolirono il celibato obbligatorio. Oggi, considerato il serio problema della penuria di sacerdoti all’interno del Chiesa Cattolica, la “regola tassativa del celibato” è diventato uno dei grandi temi di dibattito: “L’amore per Dio e anche per una persona, sono compatibili, oppure chi sceglie l’uno deve rinunciare all’altro?”.

Amici, il problema che affronta oggi la Chiesa Cattolica è serio e urgente, e va affrontato esaminando tutte le possibili soluzioni. Le difficoltà che incontra il sacerdote chiamato a gestire due o anche 3-4 parrocchie sono evidenti e difficili da risolvere. Attualmente la vita di ogni parrocchia è organizzata secondo “La pastorale tradizionale”, fondata molto sulla quantità delle Messe celebrate, ma questo non significa che basta celebrare la Messa per dare la necessaria formazione alla Comunità. L’Eucaristia, è certamente il culmine della professione della fede, ma va accompagnata da una nuova, pregnante collaborazione del popolo di Dio con il sacerdote. La Comunità dei fedeli deve essere un Unicum collaborativo, e il Sacerdote ne è l'amministratore. 

Si, oltre l’Eucaristia, amministrata dal sacerdote, nella Comunità ecclesiale ci deve essere molto altro, che spesso oggi manca. L’eucaristia non è il punto di partenza ma è il punto di arrivo della fede! C’è molto che il Cristiano della Comunità deve conoscere e praticare,  a partire dalla conoscenza della Bibbia e dei testi sacri, che preparano alla mensa della Parola, al servizio. all’attenzione e alla cura da dare ai soggetti più fragili della Comunità; c’è lo stare insieme e operare in pace e armonia, tutte relazioni che preparano all’accostarsi alla mensa del Corpo del Signore, del pane spezzato, e che rendono «vera» l’Eucaristia.

Amici, se una Comunità non porta avanti tutte queste relazioni sociali fondate sull’amore e sulla carità, la Messa rimane un rito esteriore, lontano dalla vita. Il problema odierno è, dunque, quello di rinnovare quella “Pastorale tradizionale” che continua ad essere applicata ma va rinnovata, facendola diventare più coinvolgente, in modo tale che i fedeli laici siano dei veri e sinceri collaboratori del sacerdote. Il coinvolgimento dei laici nella gestione della parrocchia deve essere la base del rinnovamento della Pastorale attuale. Questa fruttuosa unione tra sacerdote e fedeli può iniziare a sopperire alle carenze prima evidenziate. Come sappiamo i fedeli battezzati possono fare molto nella Comunità ecclesiale: possono amministrare validamente il battesimo, predicare, assicurare la catechesi, presiedere liturgie della parola, i funerali, distribuire la comunione, assistere ai matrimoni, esporre il Santissimo per l’adorazione, visitare i malati, seguire la formazione giovanile, amministrare i beni e molti altri compiti che oggi sono lasciati in gran parte a carico dei Presbiteri.

A chi sostiene che c’è il rischio della “Clericalizzazione dei laici”, ossia il pericolo di affidare ai fedeli laici incarichi propri del Sacerdote, come la guida della Comunità, bisogna rispondere che il sacerdote è e sarà sempre sempre il fulcro della vita comunitaria, e che i fedeli sono i suoi delegati, nelle funzioni che non sono esclusive, salvo quelle specifiche del ruolo di “amministratore dei sacramenti”. Il sacerdote, in questo modo, continuerebbe ad essere il grande coordinatore e la guida della Comunità.

Cari amici, sono certo che la Chiesa troverà certamente le giuste soluzioni agli attuali problemi, partendo proprio dal coinvolgimento della Comunità, in particolare quella giovanile. Questa è la via da intraprendere per ritrovare quelle vocazioni oggi carenti. Certo, anche soluzioni come quella prima ventilata (la non obbligatorietà del celibato), potranno essere portate avanti “Cum iudicio”, vagliando la possibilità che chi è chiamato al sacerdozio, ma che desidera anche formare una sua famiglia, possa essere messo in condizioni di soddisfare entrambe le esigenze.

A domani.

Mario

giovedì, settembre 25, 2025

UNA CURIOSA PUNIZIONE NEL MONDO ANTICO: LA “DAMNATIO MEMORIAE”. CONSISTEVA NELLA CANCELLAZIONE DEL CONDANNATO DALLA MEMORIA COLLETTIVA!


Oristano 25 settembre 2025

Cari amici,

Nell’antichità venivano comminate punizioni particolarissime, superiori addirittura a quella della morte, spesso praticata in modo pubblico e in maniera così forte e orrenda, da far accapponare la pelle. Ma la morte non era davvero l’ultimo dei mali, in quanto esisteva un modo ancora più terribile di annientare la persona: LA DAMNATIO MEMORIAE, riservata ai personaggi di alto rango, come i Faraoni nell’antico Egitto o gli Imperatori nell’antico mondo romano, quando il loro comportamento non era stato consono a quello che il popolo da loro si aspettava.

Nell'antico Egitto, nell’era dei potentissimi faraoni, anche una regina come HATSHEPSUT, la donna-faraone, che detenne il potere supremo, subì una "damnatio memoriae", ovvero la cancellazione della sua memoria dai monumenti, da parte del suo successore Thutmose III. Il suo nome, le sue statue e le sue iscrizioni furono distrutte, per cancellare il percorso del suo regno.

Regnanti invisi al popolo, spesso messi a morte addirittura per mano dei loro uomini di fiducia, venivano non solo eliminati fisicamente ma anche destinatari di una punizione ben peggiore della morte: la cancellazione pubblica della loro esistenza, con la rimozione delle loro tracce dalla storia! Squadre di scalpellini erano ingaggiati con il compito di cancellare le pubbliche iscrizioni che avevano osannato in vita questi personaggi, così come le statue che li rappresentavano, e i loro ritratti; anche le monete, coniate con la loro effigie, venivano fuse perché il loro ricordo svanisse: fosse cancellato per sempre!

Questa terribile procedura, nell'antica Roma era stata definita DAMNATIO MEMORIAE”, che letteralmente significa «condanna della memoria». Era la lucida cancellazione deliberata di ogni iscrizione o oggetto che potesse ricordare ai posteri l'esistenza di questa persona. L'obiettivo non era solo quello di umiliare il condannato che aveva mal governato, ma quello di estirparlo dal libro della storia romana. Era una cancellazione di esistenza, una radiazione dalla memoria pubblica: era l’eliminazione dalla memoria collettiva di un personaggio scomodo, in modo che la storia, nel giro di pochi decenni, avrebbe eliminato, cancellato per sempre il suo ricordo.

A Roma ne furono vittime diversi imperatori. Come Nerone, che, nonostante la sua iniziale popolarità, fu cancellato dalla storia dopo la sua deriva verso la stravaganza, come Commodo, che si credeva la reincarnazione di Ercole, che venne assassinato e la sua memoria cancellata dal senato; anche Geta venne cancellato da tutti i ritratti per ordine del proprio fratello, Caracalla. Ma forse il caso più eclatante fu quello di Domiziano; dopo la sua morte, avvenuta nel 96, il senato non solo ordinò la distruzione delle sue statue, ma proibì anche qualsiasi menzione ufficiale del suo nome.

Amici, paradossalmente, però, l’effetto della “DAMNATIO MEMORIAE”, non sempre raggiungeva il risultato sperato! Molti di questi imperatori che si tentò di cancellare dalla storia, non solo non furono dimenticati, ma sono oggi tra i più ricordati. Se da un lato cercare di cancellare qualcuno, significa toglierlo dalla storia, a volte quei segni di scalpello sulle iscrizioni, quelle statue con il volto strappato, ottengono il risultato contrario. Quegli indizi diventano elementi preziosi per gli studiosi (archeologi e storici), in quanto costituiscono un invito ad indagare. In un certo senso, il tentativo di oblio assoluto, ottiene il risultato opposto: far riaffiorare il ricordo dei “dimenticati”, mettendoli in primo piano!

Il percorso dell’uomo nei millenni ha avuto periodi altalenanti: in parte felici e altrettanti alquanto negativi. La storia, però, non può essere mai cancellata: ne quella positiva ne quella negativa. Ecco perché la DAMNATIO MEMORIAE ci lascia una lezione importante: il passato, qualunque esso sia stato, non può e non deve essere MAI cancellato: in quanto risulta essere assolutamente necessario, come monito e come memoria per le generazioni future.

Rilievo di Hatshepsut cesellato

Cari amici, cercare di cancellare un periodo nefasto, con la rimozione dei simboli di quel negativo periodo, come ancora oggi dimostrano i vuoti nei muri di Roma o le effigi scolpite nei templi egizi, non solo non raggiunge l’obiettivo ipotizzato, ma può avere, come accennato prima, proprio l’effetto contrario! L’oblio imposto, raramente risulta efficace, e, a volte, è proprio quello che si vuole cancellare che attira maggiormente l'attenzione. Il risultato? Molti condannati all’oblio hanno ottenuto la loro piccola vendetta: essere ricordati per sempre, spesso più di coloro che hanno operato per cancellarli!

A domani.

Mario

 

 

mercoledì, settembre 24, 2025

L'A.I. E LE RIPERCUSSIONI SUL LAVORO. ECCO LE PROFESSIONI CHE SCOMPARIRANNO E LE (POCHE) CHE RESTERANNO IN MANO ALL'UOMO.


Oristano 24 settembre 2025

Cari amici,

Che l’INTELLIGENZA ARTIFICIALE darà un duro colpo a tutta una serie di professioni anche di alto livello è, ormai, una realtà difficilmente contestabile. Sull’argomento si ventilano tante ipotesi, ma uno degli esperti del settore come BILL GATES si è espresso in termini abbastanza chiari. Uno studio pubblicato da Microsoft Research ha analizzato oltre 200.000 conversazioni anonime avvenute tramite Bing Copilot negli USA durante lo scorso anno, ricavando dei dati che fanno seriamente il punto sulla situazione.

Questi ricercatori hanno infatti individuato con precisione quali attività lavorative sono più esposte al passaggio all’Intelligenza Artificiale. e quali, invece, risultano meno esposte all’impatto dell’A.I. generativa. Il risultato? Una classifica alquanto sorprendente: almeno sono 40 le professioni ed i mestieri altamente esposti all’automazione, mentre poche altre professioni sono quelle che, per il momento, sembrano apparentemente al sicuro. La mia convinzione è che il pensiero espresso da Bill Gates sull’argomento debba essere preso in seria considerazione! Ma entriamo nel dettaglio dello studio prima accennato.

Lo studio “MEASURING THE OCCUPATIONAL IMPLICATIONS OF GENERATIVE AI“, che per effettuare l’analisi ha introdotto un indice chiamato A.I. Applicability Score, ed ha ricavato i dati utilizzando la classificazione O*NET del mercato del lavoro statunitense; mercato che identifica, per ogni occupazione, le attività svolte e la classifica in Intermediate Work Activities (IWA). Una metodologia chiave dello studio è la distinzione tra: User Goal (l’Obiettivo era monitorare l’attività che l’utente cerca di portare a termine con l’aiuto dell’AI.) e l’AI Action (Azione dell’AI), ovvero l’azione svolta concretamente dall'A.I.

Ed ecco il risultato. Le professioni più impattate dall’AI sono almeno 40! Tra le attività completate con maggior successo da Copilot vi sono la raccolta di informazioni (le ricerche su argomenti scientifici o culturali), la stesura o la modifica di contenuti (report, e-mail, materiali didattici), l’offerta di assistenza tecnica o consulenze, le attività di traduzione e interpretazione di contenuti linguistici, la risposta a richieste del pubblico e dei clienti, etc. Le attività svolte con minore soddisfazione dall’AI includono: analisi complesse di dati, visual design creativo e modellazione statistica o ingegneristica.

Amici, per meglio capire, ne è scaturita una tabella, un elenco che sotto certi aspetti fa un po’ paura, almeno per certe professioni oggi viste come di alto livello! Ecco quelle in serio pericolo. Interpreti e Traduttori, Storici, Assistenti di bordo, Venditori di servizi, Scrittori e autori, Operatori di customer service, Programmatori CNC, Centralinisti telefonici, Agenti di viaggio e biglietteria, Annunciatori e speaker radiofonici, Impiegati di borsa, Educatori per la gestione domestica e agricola, Telemarketer, Concierge, Scienziati politici, Giornalisti e reporter, Matematici, Redattori tecnici, Correttori di bozze,  Host e hostess,  Editor,, Docenti di economia (università), Specialisti in relazioni pubbliche, Promoter e dimostratori, Agenti di vendita pubblicitaria, Impiegati nuovi conti, Assistenti statistici, Impiegati noleggio e sportello, Data scientist, Consulenti finanziari personali, Archivisti, Docenti universitari di economia, Sviluppatori web, Analisti gestionali, Geografi, Modelli e modelle, Analisti di mercato, Operatori centrali emergenza, Centralinisti, Docenti universitari in biblioteconomia.

Amici, secondo Kiran Tomlinson, ricercatore senior presso la Microsoft Research, lo scopo principale dello studio non è dimostrare che l’Intelligenza Artificiale possa sostituire completamente i lavoratori, ma piuttosto evidenziare dove e come l’intelligenza artificiale possa supportare in modo produttivo le attività lavorative. «Il nostro studio analizza quali categorie professionali possono trarre beneficio dall’uso dei chatbot AI», ha dichiarato il ricercatore. Non vi è ombra di dubbio, comunque, che il futuro del lavoro è certamente in attesa di imprevedibili variazioni. Oramai, il dominio dall’automazione sta creando una paura sempre più grande e concreta, con il terrore di essere sostituiti da un’intelligenza artificiale. Ma non tutto, a quanto pare, sembra perduto. Bill Gates, tra i fondatori di Microsoft, ha indicato tre grandi professioni che, nonostante i progressi tecnologici, resteranno saldamente nelle mani degli esseri umani. Ecco quali sono e perché hanno ancora un certo futuro.

Ecco i TRE GRANDI SETTORI PROFESSIONALI che l'intelligenza artificiale non potrà mai sostituire! Il primo è LA PROGRAMMAZIONE, necessaria sempre e ovunque, e chi la sa usare ha un vantaggio competitivo enorme; il secondo Il secondo settore capace di resistere all'automazione è LA BIOLOGIA, presa in esame nel senso più ampio! Biologia intesa scienze della vita, medicina, biotecnologie, etc.. La natura è troppo complessa per essere riassunta in un algoritmo! Servono quelle capacità umane in grado di interpretare i dati clinici, fare diagnosi, elaborare terapie, ma anche affrontare dilemmi etici e comunicare con altri esseri umani. L’intelligenza artificiale può supportare, ma non sostituire queste competenze. E non parliamo solo di laboratori o ospedali: chi lavora sulla salute globale, sull’ambiente o sulla genetica affronta problemi reali, in continua evoluzione. Qui, amici, la flessibilità mentale e l’intuizione contano più di qualsiasi script.

Il terzo settore lavorativo, che secondo Bill Gates resterà in mano umana. è L’ENERGIA. Dalla transizione ecologica alla progettazione di nuovi impianti, serve chi sappia immaginare, testare e gestire soluzioni su larga scala. L’A.I. può aiutare a ottimizzare i progetti, ma non può decidere come rendere sostenibile l’intero sistema. Servono figure capaci di connettere innovazione tecnica, economia e impatto sociale, e la mente umana e l’unica deputata a farlo. E questo vale sia per i grandi impianti, sia per chi lavora su piccola scala nei territori.

Cari amici, credo di avere già espresso la mia opinione sull’Intelligenza Artificiale e sul suo potenziale. Se l’uomo vorrà saggiamente amministrare questa grande possibilità a suo favore, dovrà imparare a gestirla con attenzione, senza lasciarsi andare a voli pindarici che lo potrebbero vedere sicuramente perdente! Il cervello umano è insostituibile, e nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituirlo! Quello umano lo ha creato Dio, mentre quel “cervello artificiale” creato dall’uomo, in realtà è un grandissimo calcolatore, ma freddo e asettico, nato senz’anima e senza coscienza!

A domani.

Mario

              

martedì, settembre 23, 2025

LA “SINDROME DI HUBRIS”: QUANDO IL POTERE RIESCE AD OFFUSCARE LA MENTE DELL’UOMO, CAMBIANDONE LA PERSONALITÀ.


Oristano 23 settembre 2025

Cari amici,

Che il potere riesca ad offuscare la mente dell’uomo è, ormai, una certezza incontestabile. Lo stesso Bertrand Russell ebbe occasione di affermare che “Il potere è dolce, è una droga; e, come per quest'ultima, il desiderio cresce con l'abitudine”. Si, alti livelli di potere causano la così detta SINDROME DI HUBRIS, ovvero quella “Distorsione psicologica” che colpisce le persone che detengono un grande potere; questa sindrome è universale: può, infatti, riguardare gli affari, la politica o qualunque altro campo. È, in realtà, “un sintomo di cui non si parla spesso”, ma è presente più di quanto immaginiamo! Si insinua lentamente “come un contagio”, nel soggetto che ha ottenuto una certa autorità, e, man mano che questo si immedesima nel ruolo, la sua precedente personalità inizia a cambiare. Giorno dopo giorno, infatti, inizia a credersi superiore, infallibile e intoccabile. Questa lenta trasformazione, nota come “SINDROME DI HUBRIS”, ha preso nome da un vocabolo antico: Hubris è, infatti, una parola della lingua Greca e significa “senza misura”. In passato il termine era usato per descrivere quei leader che, presi dall’arroganza, dall’onnipotenza, perdevano il senso dei propri limiti.

Questa sindrome, come accennato detta di Hubris, è stata descritta di recente da Lord David Owen sulla rivista “Brain”. Il quadro è simile a quello di altri tre disturbi della personalità: quello narcisistico, l'istrionico e l'antisociale. Lord David, medico e politico inglese, descrive la sindrome come caratterizzata da comportamenti arroganti e ispirati a presunzione, che si accompagnano ad una preoccupazione maniacale per la propria immagine. Secondo gli psicologi questo quadro mentale si presenta alquanto spesso nelle persone che gestiscono il potere, specie se protratto nel tempo e se al potere detenuto si aggiunge il successo.

Il neurologo Peter Garrard su questo pericoloso male ha pubblicato un interessante libro: THE LEADERSHIP HUBRIS EPIDEMIC, dove, dopo si ricollega agli studi precedenti relativi alla Hubris Syndrome (il libro più importante fu quello pubblicato dal politico Lord David Owen e dallo psichiatra Jonathan Davidson nel 2009), e ad altri successivi elaborati da diversi studiosi (uno successivo è dallo stesso Owen che porta il titolo The Hubris Syndrome: Bush, Blair and the Intoxication of Power - Methuen, York, 2012. II edition). Nel libro Garrard ha evidenziato in dettaglio in che modo questa pericolosa malattia sta diventando una vera e propria epidemia.

Ecco come la Hubris Syndrome si manifesta nelle persone che gestiscono il potere. Il leader (o il manager) affetto da questa sindrome, diviene iper-fiducioso nelle proprie capacità, iniziando a mostrare disprezzo, insolenza o indifferenza verso gli altri, sentendosi onnipotentemente orgoglioso di gestire il proprio potere: una miscela esplosiva, che rende facilmente ciechi di fronte ai possibili rischi. Si tratta di una sindrome pericolosa, che si affianca a molte altre ormai note e studiate, ma, soprattutto, incarnate con fin troppa evidenza da persone che hanno in mano le sorti del mondo o, almeno, di parti di esso.

La triste realtà, amici, è che Politici e Capi di stato non ne sono immuni! E Nick Bouras, nella prefazione al suo libro “Mental Health Services for Adults with Intellectual Disability”, cita giustamente i recenti casi dei crack finanziari in cui la Hubris Syndrome ha rivelato il suo potenziale distruttivo; come nei manager di Lehman Brothers, di Enron e della Royal Bank of Scotland. Questa sindrome opera in tutti i campi: da quello economico a quello militare, da quello della medicina a quello politico. Nessun settore, in realtà ne è immune. Amici, l’uomo di per se nasce ambizioso e desideroso di potere.  Il potere, però, una volta acquisito è una droga che ubriaca, e non tutti i leader hanno un carattere abbastanza forte per dominarla. La sindrome, inoltre, cresce e si rafforza nella permanenza del potere: più è lungo più aumenta il rischio. Il grande Bertrand Russel aveva già intuito un’alterazione dell’equilibrio mentale di una persona al potere. Ciò lo ha portato a descrivere il legame causa-effetto tra il potere e il comportamento aberrante, attribuendogli il nome di “intossicazione del potere”.

Cari amici, considerata la mia età e il lavoro che per 40 anni ho svolto, posso confermare che la “SINDROME DI HUBRIS” era (ed è), anche oggi, una triste realtà, in tutti i campi. Ho avuto modo di osservare persone dall’indole onesta che, una volta acquisito il potere, soprattutto se durato a lungo, si sono trasformate in soggetti dispotici, arroganti e presuntuosi. Alla luce di ciò, sono convinto che il potere dovrebbe sempre essere sempre limitato: “ne troppo ne troppo a lungo”! Il sistema sociale e politico dovrebbe sempre porre dei limiti ai poteri posti nelle mani di una sola persona, in particolare per troppo tempo!

A domani.

Mario

 

lunedì, settembre 22, 2025

EMOZIONI E LACRIME. LA SPIEGAZIONE PSICOLOGICA DEL MOTIVO “PERCHÈ SI PIANGE”. LA FUNZIONE E IL VALORE DELLE LACRIME.


Oristano 22 settembre 2025

Cari amici,

La stragrande maggioranza delle persone “PIANGE”. È questo un dato di fatto, in quanto, dai numerosi studi sull’argomento, sono pochissime le persone che non piangono. Tuttavia ci domandiamo: “PERCHÉ SI PIANGE”? In realtà fin dagli inizi della vita, da bambini, le lacrime sono frequenti, ed hanno un ruolo fondamentale nel sollecitare l’attenzione e la cura da parte delle figure d’accudimento (Trimble, 2012). Ma che dire degli adulti? La risposta a questo quesito è meno chiara.

Molti studi hanno tentato di trovare risposte, e, in un interessante studio, due scienziati esperti in Psicologia del pianto, Rotteberg e Vingerhoets (2012), hanno costruito una narrazione sulle motivazioni del pianto; lo hanno fatto attraverso uno studio sulle varie età e sulle modalità con cui questo pianto viene ad essere sempre più regolato; questo ha permesso di riunire le varie ricerche precedenti, ma anche di individuare le lacune, come il pianto in età adolescenziale o senile, che è stato fortemente trascurato.

Comunque, amici, una cosa è proprio certa: sono le forti emozioni a causare le lacrime! Il pianto, comunque, è ben di più di un semplice sintomo di tristezza, come sostengono con forza Vingerhoets ed altri psicologi. Il pianto è stimolato da una gamma di sentimenti, che vanno dall’empatia alla sorpresa, dalla rabbia all’afflizione e, diversamente da quelle “farfalle nello stomaco” che svolazzano invisibilmente quando siamo innamorati, le lacrime sono un segnale forte che gli altri possono vedere. Questa moderna intuizione risulta centrale nel nuovo pensiero riguardante la psicologia del pianto.

Le lacrime, insomma, servono anche a mostrare agli altri che siamo vulnerabili, e la vulnerabilità, lo sappiamo, è critica per la connessione umana. Le stesse aree neuronali che sono innescate dal vedere qualcuno emotivamente attivato sono le stesse che si innescano quando ci stiamo. a nostra volta, attivando emotivamente (Trimble, 2012). Si pensa che ci deve essere stato qualche momento, nella nostra storia evolutiva, in cui le lacrime sono diventate qualcosa che automaticamente avviava l’empatia e la compassione negli altri. In effetti essere capaci di mostrare la nostra fragilità emotiva col piangere, così come di rispondere ad esso, costituiscono una parte molto importante dell’essere umano.

Amici lettori, se tutti, o quasi tutti, piangiamo, c’è da dire che non tutti piangono allo stesso modo e con la stessa intensità. Ci sono persone che piangono più facilmente di altre, è questo è certamente sintomo di una più elevata sensibilità emotiva. Questo non significa essere più “fragili”, ma avere una maggiore capacità di entrare in contatto con ciò che proviamo e con ciò che accade intorno a noi. Il pianto, in questo senso, agisce come una via per sfogarsi, che aiuta a ridurre la tensione e a ritrovare l’equilibrio interiore. Inoltre, alcuni studi indicano che alcune persone sono più inclini a piangere a causa di fattori biologici, come il rilascio di ormoni legati allo stress o all’empatia. La genetica, il contesto sociale e persino il genere, influenzano la frequenza con cui esprimiamo le nostre emozioni attraverso le lacrime.

In sintesi, avere “il pianto facile”, lungi dall’essere un segno di debolezza, può evidenziare, invece, l’essere un soggetto emotivamente forte. Per quale motivo? Quelle dal pianto facile sono persone capaci di riconoscere e scatenare le proprie emozioni, sono soggetti che non le reprimono, e questo fa sì che esse abbiano più risorse per affrontare le situazioni difficili! Inoltre, amici, gli esperti di psicologia positiva spiegano che il pianto può essere un indicatore di resilienza: essere in possesso di una sensibilità in grado di trasformare la vulnerabilità in forza. In altre parole, le cosiddette persone “altamente sensibili” tendono a piangere di più, ma mostrano anche una profonda empatia e una grande capacità di adattamento.

Cari amici, piangere, insomma, fa bene al nostro organismo! Al di là dell’aspetto emotivo, infatti, le lacrime svolgono un ruolo fisiologico: aiutano a liberare le tossine, riducono i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) e generano una sensazione di sollievo dopo il pianto. Ecco perché, spesso dopo aver pianto, ci sentiamo più leggeri, con una rinnovata lucidità mentale e pronti a continuare il nostro percorso. La psicologia, amici, conferma che “piangere non è un difetto”, ma una caratteristica della nostra personalità. Alla fine, le lacrime sono un’espressione umana potente, che collega corpo e mente, e ci ricorda che provare emozioni intense è anche un segno di grande forza interiore.

A domani.

Mario